La musica come avvenimento, in: Renzo Cresti, I linguaggi delle arti e della musica, l’e(ste)tica della bellezza, (con testimonianze di 64 compositori), Edizioni Il Molo, pag. 181.
Mi è sempre piaciuto comporre musica, e già da questa prima affermazione, forse un po’ troppo sincera o confidenziale, vorrei che si capisse che non mi interessa esprimere concetti che sembrino intelligenti, ma dire molto semplicemente cose vissute. Da un lato mi è sempre piaciuto, dall’altro, e questa seconda attitudine in verità è maturata gradualmente nel tempo, ogni mio scritto musicale è legato a uno spunto emozionale, -si potrebbe dire- a un’idea molto delineata, che deriva da qualcosa di necessario che tale scritto provoca, ispira, richiede. Per necessario intendo per esempio: il pezzo deve, o vuole, essere per un determinato strumento o insieme di strumenti; da questa semplice premessa parte già da qualcosa di necessario, che la limita. Il rapporto con questo tipo di necessità mi è sempre piaciuto, è una specie di sfida ogni volta, ad affrontare l’idea e i limiti imposti di conseguenza dall’idea e insieme dalle condizioni strumentali.
In questa direzione, ma in un modo molto più entusiasmante, si plasma per me il rapporto tra la musica che scrivo e la parola da un lato, e dall’altro, più che con l’immagine in sé, con qualcosa che l’immagine implica: l’avvenimento teatrale. Il vero teatro mira a far succedere ancora, ogni volta di nuovo, un avvenimento ricordato o immaginato. Mira ad un tipo di comunicazione globalmente umana con il pubblico, coinvolgente perché rimanda sempre a parecchi aspetti che fanno parte di quella grande e affascinante complessità che forma la vita vissuta. La consanguineità tra la musica che sono capace di scrivere (può essere un pregio e può essere anche un limite…) con la parola, nel senso che scrivere su testo non mi ha mai preoccupato quanto stimolato, e con il teatro, è comunque qualcosa di particolarmente vissuto per me, in modo forse anche indipendente da ciò che scrivevo qui sopra. Il testo non mi fa perdere il filo del pensiero musicale, anzi lo provoca, lo stimola, suscita in esso processi di analogia, di contrasto, di ironia. Un teatro che non sia, poco o tanto, divertente è forse sopportabile? Ma – sono convinto che ormai siamo in tanti a pensarla così – una musica forse sfugge a questa esigenza? Dopo l’ultimo travagliato secolo, in cui la musica e l’arte hanno osato come non mai, eccedendo in geniali o orgogliosi tentativi e scarseggiando in comunicazione, in commozione, in ironia, non abbiamo forse un po’ perso per strada questa necessità, che anche (o soprattutto) la musica sia qualcosa di incontrabile dalla globalità della persona? E incontrabile anche, almeno in qualche misura, dalla totalità delle persone, almeno non solo da quel pubblico finto che è formato solo da addetti ai lavori?
L’argomento è tanto scottante e drammatico, che non può certo ridursi, non si può sperare di risolverlo in una diatriba salottiera. Prova ne è il fatto, indiscutibile, che una grave frattura in questa ultima decina di decenni l’uomo occidentale l’ha incontrata, la frattura esplicitata dalla contraddizione che Schönberg evidenziava tra bello e vero. Ma la sovrana libertà dell’uomo e dell’artista di esprimere il suo dramma occorre non diventi un’ideologia un po’ tiranna. Se Schönberg, specie in certi passi della sua vicenda creativa, non vedeva possibile la coincidenza tra quelle due parole, tanti altri grandi tale coincidenza, tra bello e vero, non solo hanno desiderato, ma hanno anche sperimentato ed espresso. Da tale pace (o armonia direbbero in oriente) potrebbe derivare la riconciliazione tra termini oggi, specie tra gli addetti ai lavori, così spesso in conflitto; tra questi musica e parola, da sempre, proprio nella nostra tradizione occidentale, così in rapporto di relazione e di necessità.
Come per tutte le domande più serie, anche in questo caso penso che non dico la risposta, ma l’affronto serio, autentico, può venire solo dall’autentica esperienza personale, e tornando quindi a questa (da cui non solo sono partito, ma non amo proprio discostarmi) quello che ho da raccontare da un’ultima esperienza, in pieno corso, di scrittura per il teatro musicale, è che amo sempre di più non solo farmi tentare dalle suggestioni degli elementi extra-musicali più usuali, come il testo e il teatro, ma amo approfondire l’esperienza di relazione profonda, di suggestione, di suggerimento, di facilitazione che da tale relazione viene incoraggiata. Sono sempre più convinto che l’apporto interessante nell’arte musicale (come in tutto) non venga dalle intenzioni, dai proponimenti, ma dall’innamoramento, dal fascino che la realtà è in grado di offrirmi, e insieme dall’esperienza coinvolgente (per me e di conseguenza, spero tanto, per chi ascolta) che i vari aspetti della realtà, come certamente il testo e la musica, sono in grado di far avvenire. Ecco: la musica come avvenimento.
Tradizione e nuove produzioni nella prassi liturgico-musicale di alcune esperienze ecclesiali, in Musica e storia, volume XIII, dicembre 2005 (pag 583-603), Società Editrice il Mulino.
L’intervento descrive l’esperienza di un compositore di musica classica che si occupa del canto liturgico del movimento di Comunione e Liberazione, di cui dirige il coro. Viene illustrato il tipo di repertorio che nel movimento fondato da Don Luigi Giussani si usa nelle messe e negli incontri di meditazione e di celebrazione della Settimana Santa, caratterizzato dalla valorizzazione da un lato della tradizione, dall’altro di nuove produzioni, ma che in ogni caso devono incontrarsi con le aspettative più profonde dell’uomo contemporaneo. Da questa esigenza nasce la predilezione per alcuni generi musicali: in primo luogo la lauda monodica medievale, a partire dalle testimonianze del manoscritto 91 di Cortona e del Banco Rari 18 della Biblioteca nazionale di Firenze; la lauda polifonica del Quattro-Cinquecento, soprattutto nelle forme messe a punto dall’Oratorio di S. Filippo Neri; il canto gregoriano, esempi della grande polifonia vocale, specialmente quella del secondo Cinquecento con una predilezione per de Victoria, ma anche dei principali musicisti del Sei-Settecento. In ogni caso, la scelta è guidata dall’attenzione per il canto della comunità, che comporta una cura assidua nei riguardi della monodia di tradizioni diverse e una stima speciale per i salmi di Joseph Gelineau. Vengono illustrati esempi di musiche proposte, dirette e talvolta composte da Molino per dare voce alla vita e alla preghiera della Chiesa, nella convinzione che il canto condiviso sia un fattore indispensabile di educazione della persona alla comprensione della realtà che ci circonda.
Nel 1994, insieme ad altri due compositori, Landini e Possio, e ad un musicologo, Cresti, ho redatto il
MANIFESTO MUSICA ‘94
Non vogliamo mettere a punto una teoria per il futuro, ma proporre una riflessione sull’esperienza che alcuni musicisti stanno vivendo (non solo i firmatari di questa pagina). Non ci sembra opportuno formulare una teoria opposta all’altra, un elenco di divieti o strategie politiche per essere eseguiti, quanto intendersi su alcuni punti saldi che vogliono descrivere delle prassi compositive legate a delle necessità interiori.
Nel processo creativo prima viene l’idea musicale, quella da cui inizia una composizione, che non è percepibile se non si concretizza nell’oggetto musicale: prima viene l’esperienza dell’ascoltare, dell’ascoltarsi, del suonare e dello scrivere, il linguaggio ne è l’esito. È l’originale e irripetibile idea musicale che crea il motivo primo dell’ interesse, la reale novità di una composizione: questa idea è oltretutto il punto da cui parte il lavoro di costruzione della pagina stessa, in base alla quale si può scegliere un’elaborazione piuttosto che un’ altra. Conseguenza di ciò è che il linguaggio è personale e in continua evoluzione; se si guarda solo al linguaggio la scrittura diventa calligrafismo, inoltre il linguaggio, con i suoi rimandi interni, può creare labirinti astratti. La scrittura invece è, come la grafia, un fatto individuale, anche se, evidentemente, non è indifferente al processo creativo (alle ragioni del suono e del suo articolarsi). L’accademismo rappresenta una forma senza idea; quando invece la forma è tutt’ uno con l’idea, il costituirsi dell’oggetto musicale diventa una forma del possibile vissuto. Occorre quindi riscoprire la forma, ma la forma dell’oggetto. La capacità di comunicazione che una composizione possiede (rappresentata per esempio dalla cantabilità, oppure dalla ricerca di un fondamento armonico, o da qualsiasi sottolineatura di un aspetto compositivo, suggerita dalla presenza determinante della musicalità) non è un difetto, lo diventa se è intenzione che non si risolve in forma. Proprio per questo la validità delle nostre riflessioni deve essere verificata dai valori musicali, riconoscibili nelle composizioni e non viceversa: non si tratta di un discorso a priori, sulla musica, ma di entrare dentro alla musica.
PIPPO MOLINO-CARLO LANDINI-GIANNI POSSIO-RENZO CRESTI